Mag 5, 2020

La relatività del tempo di Ozpetek – Parte II

Finalmente scopriamo il valore esatto di 10 minuti per Ozpetek e le Ferrovie.

Benvenuti alla seconda parte dello spot promozionale delle Ferrovie dello Stato Italiane, che con Ferzan Ozpetek ci tengono ancora in ostaggio su un treno senza speranza.

La prima parte si può leggere qui.

Episodio 3
L’amore in valigia

 

Ci siamo tediati a sufficienza con la vedova piagnona, quindi passiamo da lei alla nuova scena con cambio di musica incomprensibile. Va bene, adesso siamo a Milano, ma chi ha scelto la colonna sonora? Non so se aspettarmi un altro spot di Amica Chips con Rocco Siffredi o una rievocazione storica di Ocean’s Eleven. Purtroppo non è nessuno dei due, ma uno scorcio telefonico che ci ricorda che qui il leitmotiv è circondarsi di storielle ispide.

Il capotreno è un papà, che con il figlio dà vita a un dialogo di una stucchevolezza tale che in confronto il libro Cuore è l’Arte della guerra.

«Ciao amore sto per partire, ci vediamo più tardi a casa!»
«Papà finché tu non arrivi io non vado a dormire!»
«No, non aspettarmi!»
«Però quando arrivi mi potresti svegliare?»
«Sì, con un bacio! Mi raccomando con mamma!»

Stiamo parlando di una micro-conversazione semplice semplice. E non funziona niente. Il padre prima dice che si vedranno a casa, poi obietta al desiderio del bambino di aspettarlo sveglio, salvo accettare di svegliarlo in piena notte. Se mi dicevano che era un brano tratto da un’Operetta io ci credevo. Peraltro qui c’è l’equivalente al maschile di “principessa”, che abbiamo visto nell’episodio precedente: “Mi raccomando con mamma.” Che vuol dire “Mi raccomando con mamma!”?  In mia assenza sei tu l’uomo di casa, piccolo Timmy, occupati tu dei cavalli e dei Comanche? Se vuoi dire “comportati bene”, digli di comportarsi bene, non togliergli la responsabilità delle sue azioni scaricando tutto sulla necessità di preservare la mamma dalle proprie isterie.
E poi, una volta per tutte, trovate un bambino che sappia parlare senza sta cantilena insoffribile, dai, ci mettete dieci minuti, è pieno di bambini bravi che fanno i doppiatori professionisti, piantatela di far fare le cose ai figli degli amici. Non posso provare tenerezza e coinvolgimento se il padre c’ha scritto ‘Carabiniere sotto copertura’ in fronte e il figlio parla come se stesse recitando di malavoglia la poesia di Natale.

La voce fuori campo incalza, tremula:

C’è chi si porta gli amori più profondi sempre nel proprio bagaglio.

Che a me sembra più la scusa che avrebbe dato il serial killer Cesare Serviatti sorpreso in stazione con un corpo a pezzettini in valigia, ma fate un po’ voi.

Dopo una serie di incontri idilliaci tra colleghi, per reiterare l’ideale ridicolo che alle Ferrovie sono tutti amici e tutti felici, lasciamo il padre e ci becchiamo una tale Anna. Anna è un’impiegata integerrima, e non perché prende dalla tasca il cellulare come se il vero scopo fosse quello di annusarsi le ascelle, ma perché, invece di fare il suo lavoro, intralcia la banchina per mandarsi gli sms col marito – per poi salire sul treno con un gratuito sguardo da spia sovietica.

Episodio 4
Le madri assillanti

 

La voce fuori campo, che sembra rompersi in pianto da un momento all’altro, non desiste:

“C’è chi si lancia in nuove avventure con l’entusiasmo di un esploratore.”

L’esploratore in questione è un povero bambino esausto; la sua avventura è sopravvivere all’ansia claustrofobica che tutti proviamo in presenza di sua madre.

“Amore ora arriva papà, tranquillo!”

Dice la donna, cercando di distogliere il figlio dal finestrino. Ma lui non vuole il papà, cerca una via di fuga.
La parte peggiore è che la madre non è agitata, ha solo un gusto patologico per il controllo e l’enumerazione di oggetti a caso: occhiali (che suo figlio non userà mai), telefono per chiamare mamma e papà, il suo panino però il formaggio non lo mangia, signora si mangerà il suo maledetto panino, non è che a una certa ora passano con i canapè al gorgonzola e chi li rifiuta viene messo a morte.

Mentre il figlio e l’accompagnatrice annuiscono a ogni sua parola, ormai del tutto inebetiti, per incredibile intreccio narrativo passa di lì proprio Anna, che stava verificando la posizione esatta del dissidente da avvelenare. La signora non può rinunciare a questa ghiotta occasione di infastidire qualcun altro, e chiede:

“Scusi, il papà sta portando un libro, fa in tempo?”

Che domanda è? Se è su un aereo cargo in Zimbabwe mi sa che non fa in tempo no, verrebbe spontaneo ribatterle. Ma Anna ovviamente le dà corda, perché a lei che je frega, ha sia lo stipendio delle Ferrovie che della Russia.

“Certo, abbiamo ancora 10 minuti.”

 

Dieci minuti come finestra temporale in cui è possibile arrivare da ogni angolo del mondo, segniamocelo amici.

“AH! Grazie, menomale!”

Un sollievo che forse invece di libro dovevate metterci “farmaco salvavita”.

“Buon viaggio!”

“Grazie!”

Risponde la signora, che è l’unica a non dover viaggiare quel giorno.

Il bambino rimane da solo con l’addetta che da quel momento in poi lo tratterà come se avesse quattro anni. In sua difesa, lui le risponderà sempre come se ne avesse tre.

Mentre Anna manomette i comandi, il treno parte. Da qui in poi è una caduta libera di luoghi comuni:

“poi in un momento le emozioni accelerano, la vita cambia velocità e nasce il mondo intorno: quello che scorre rapido sotto gli occhi.”

“Emozioni” e “vita” al posto di “treno” non generano una gran poesia, ma un paio di ovvietà senza sapore che non trasmettono nulla perché non sono sentite, sono solo esternazioni pigre belate da un agnello al microfono.

“Come sta la bimba?”

Chiedono a quell’intellettuale della madre della serva di Satana, che non si accontenta di fare la voce fuori campo.

“Bene, oggi mi ha dato un disegno bellissimo!”

E altre cretinate cosmiche che insistono su un team che si conosce e si interessa dei propri membri e per qualche ragione hanno pensato che potesse interessare anche a noi.

Poi ancora frasi vuote tra i vagoni, davvero sto provando una nostalgia feroce per lo storytelling del treno di Dumbo “Casimiro a tutta forza va/verso la città/quanto fumo fa”, che in confronto era avanguardia pura.

Uno sguardo rapido sul prosieguo dell’amicizia tra la ragazza e la signora dai capelli blu, che parla della sua perdita e si rabbuia, dilaniata dal dolore. Seguendo la linea narrativa dell’elettroencefalogramma piatto, la più giovane domanda:

“Quant’è che state insieme… siete stati, insieme?”

Vabbè, questa ti piange davanti da quanto la conosci e ti viene la gaffe marito vivo/marito morto? Ma tu non hai attitudine all’esistenza, proprio.

La signora, poveretta, si sta sfracellando con la mountain bike della sua anima sul viale dei ricordi e risponde:

“QUARANTASETTE!”
“Quarantasette anni! Ah ah!”

E restano lì, insieme a noi, tra delirio, amarezza e moltissimo disagio.

A questo punto Ozpetek e le Ferrovie puntano tutto sull’empatia e passano con disinvoltura dalla perdita incolmabile alla frizzante lettura di libri per bambini, dal defunto al flauto:

“Come fa?”
“Burururuu!”

Non chiedetemi il senso o l’opportunità di tutto questo. D’altronde, le emozioni che accelerano sono così, un po’ infami.

Siamo a otto minuti, otto minuti amici e io voglio tantissimo essere portata via dagli artigli acuminati di un condor, specialmente quando gli sguardi di Anna e suo marito si incontrano, fermando per un istante due treni che vanno a 300 km/h, con la terrificante frase:

“un momento diventa lo spazio di un tempo infinito!”


che in fondo è la verità: io mi sento depredata di un paio di anni di vita ogni volta che riguardo lo spot.
In tutto questo incontro amoroso di convogli, neanche l’ombra di un tronco di cono.

Episodio 5
Dove si arriva in 10 minuti?

 

Se sentite male al fondoschiena è perché abbiamo finalmente impattato con il fondo: un gruppo di ragazzi che non hanno più la scusa di avere 15 anni da almeno 15 anni, canta. Cantano in treno, capite, muovono le teste e gli altri sorridono, dev’esserci una perdita di gas se no è impensabile che nessuno li legni. Più in là un tizio parla al telefono, praticamente è un vagone maledetto.

Io non ho più le forze, sono come il treno che è entrato nella camera del figlio del capotreno: non dovrei essere qui, non ne capisco il senso, è un pezzo che sto fuori dai binari ma ormai non posso più tornare indietro.

“E alla fine di ogni viaggio c’è qualcosa che dopo mille e mille chilometri non ci ha mai lasciato: la sensazione di essere a casa.”

A parte questi conteggi sulle distanze tipo Ingegner Cane, qui siamo proprio alla fantascienza: quello che avevano in comune tutti i personaggi, dal padre al telefono ad Anna Karenina coi messaggini, era il desiderio disperato di tornare a casa. Se l’idea era quella che si sentissero a casa sul treno, forse non l’avete venduta benissimo, anche perché pure chi stava solo guardando non vedeva l’ora di andarsene.

Ma a Ozpetek e le Ferrovie questo non importa, il treno arriva nella stanza del bambino senza fare un calcinaccio, piano piano per non svegliarlo, così lo sveglia il padre (oh non l’hanno mollata fino alla fine, ‘sta baggianata).

Segue l’abbraccio tra il capotreno e il figlio, con una luce e delle proporzioni auree che sembra sceneggiato da Michelangelo e la musica sentimentosa che pare che un secondo prima il bimbo fosse un burattino.

E all’improvviso, il Miracolo!

È finito! Gli ultimi due minuti erano i titoli di coda!

Il “cortometraggio” in sé è durato dieci minuti abbondanti.

Dieci minuti. Incredibile: come il tempo che aveva il padre per portare il libro al figlio. Era questo, il messaggio della tortura in movimento a cui ci hanno costretti: capire che se i 10 minuti sono interminabili come questo post, il padre aveva il tempo di paracadutarsi dal cargo, di farsi illustrare il libro da un miniatore, di trovare la cura per l’intolleranza al formaggio.

Quando l’altoparlante in stazione dice che c’è un ritardo di dieci minuti e poi invece è un’ora, siamo noi che non capiamo.
Sono i dieci minuti eterni di questo spot.
I dieci minuti che non portano da nessuna parte.