Apr 29, 2020

La relatività del tempo di Ozpetek – Parte I

Ozpetek e le Ferrovie dello Stato Italiane ci insegnano a percepire il tempo con dolore.

Io avrei chiamato basta dopo l’horror di Pupi Avati, ma le Ferrovie dello Stato hanno voluto coprire ogni possibilità, gettandosi sui sentimenti romantici di Ferzan Ozpetek, con uno strazio di vecchiaggine narrativa che dura tredici estenuanti minuti.

Ferrovie dello Stato, qua comincia a sembrare che ci godiate a far soffrire la gente con i vostri spot. Magari c’è un piano benevolo dietro: per esempio, volete aumentare la soglia di sopportazione di potenziali passeggeri, in modo che non protestino per tre ore di ritardo, giacché sembreranno niente in confronto a questo video promozionale.

Episodio 1
Le madri ignoranti

 

“Ma quanto ti piace stare sul trono, principessa”?

No, ma cogliamo l’occasione, piuttosto: proviamo a smettere di chiamare le bambine ‘principessa’? Già è pieno di donne che fanno passare con successo l’idea che fare la despota psicopatica sia una caratteristica insita in ogni femmina e dunque da accettare con rassegnazione e regalie votive. La finiamo, noi adulti, di rinforzare quest’idea per cui la bambina va trattata come una sovrana che firma le bolle imperiali, per piacere?

Qui si apre un dilemma: parlare nel dettaglio dell’espediente moderno di parità “viene a prenderti nientemeno che papà, oggi, senti come siamo progrediti? E comunque ho i tacchi perché non rinuncio alla mia femminilità” o tralasciare il dialogo e gustarsi la recitazione terrificante per cui l’interpretazione più sincera è quella dei raggi della bicicletta?

Le due entrano a scuola e troppo poco la regia si sofferma sulle seggioline di legno in entrata, bisognava approfondire di più quella riunione di piccoli pensionati al circolo del Tressette ma soprattutto il motivo per cui i disegni dietro sono quasi tutti identici. Ma forse è meglio così, perché possiamo osservare con più calma che all’ingresso c’è un bidello. Ora, io in una scuola elementare non ci metto piede da parecchio, ma perché ha il camice? Sembra un medico di base che riceve abusivamente nell’atrio.

Se aguzzate la vista, nello stesso frangente c’è della poesia: il bambino con il maglione rosso di lana, quelli che fanno in montagna per chi vive in montagna, che zompetta con mestizia. Non è possibile spiegare a parole la desolazione del passo saltellato di un bambino a cui Ozpetek ha detto “Immagina di essere coriandoli, ma di amianto.” Una creatura che ha talmente fiducia in quello che sta succedendo che, prima di entrare, ha lasciato fuori  sia lo zaino che il cappotto, probabilmente per scappare via appena può. E come dargli torto: intorno a lui le voci dei bambini si rincorrono allegre, quasi assordanti, dirompenti, ma i suoi coetanei camminano come automi, per lo più spinti per le spalle da adulti che sembrano convinti di interagire con palle da bowling. Una piccolina davanti a lui ha una mano sulla bocca tutto il tempo. Chissà che ha visto.

Ora che siamo belli inquietati, ritorniamo sulla madre, che ostenta un affetto inutilmente teatrale dal primo fotogramma: oggi viene papà a prenderti, non uscire finché non arriva, chiudi i cancelli smorza le candele, poi la abbraccia come se la stesse abbandonando su una zattera; non è il gesto in sé, il problema, non è che mi aspettassi che le tirasse i capelli in bidelleria, ma quell’esagerazione tremula non dà un minimo di credibilità a una scena già abbastanza farinosa. C’è poco da stupirsi che sua figlia le dia un disegno con un gesto che sembra dire: non ti conosco, mi sembri pazza, tieni questo pezzo di carta, io me ne vado.

Nell’accettare il disegno, la donna sospira così tanto che sembra un alcol test, guarda la bambina andare via con quell’aria da fidanzata di soldato al fronte ma porca miseria, una reazione del genere si spiega solo se il neuropsichiatra il giorno prima le ha detto “sua figlia è chiaramente  quella che si dice in gergo medico una serva di satana, l’unica via di redenzione è che le faccia un disegno”, non ci sono altre spiegazioni. La casa nella prateria in confronto era un concerto dei Ramstein.

E vediamolo, questo disegno.

Siccome a me piace documentarmi e tormentare i miei familiari con domande strane, ho unito queste due passioni e ho mandato il disegno a mio padre, che è un esperto di treni. Questa la sua risposta:

“Sembrerebbe un treno americano, perché si vede la locomotiva con il camino a tronco di cono. La conferma sembra venire anche dalla divisa del macchinista e dal fatto che dietro c’è una vettura viaggiatori molto simile a quelle che attraversavano il West.”

Quindi, ricapitolando: la madre lavora su un moderno treno in Italia nel 2020 e la figlia riproduce un treno americano con la locomotiva con il camino a tronco di cono, riproponendo nei dettagli anche i costumi. Ma come può essere credibile, una cosa del genere?

Con un inno alla modernità e all’ecologia, il treno va a carbone, liberando un fumo così fitto da coprire le nuvole.

“Mia figlia dice che faccio un lavoro magico!”

No, tua figlia sta denunciando emissioni da far impallidire la Cina.

Ma non lasciamoci distrarre dal bidello che, dietro di lei, si rifiuta di prescrivere l’ennesimo Prozac a un’altra mamma. Continuiamo ad ascoltare.

“…che la mattina vado sulla macchina dei desideri. E in effetti ho un ufficio che va a 300 km/h da dove si vedono cose fantastiche.”

Cose fantastiche”. Che padronanza di linguaggio. Che parlare squisito.

Essendo ormai chiaro che la regia ci prende in giro, abbandoniamo ‘sta lagna di donna, ignorando di proposito il siparietto incomprensibile con i colleghi, perché 13 minuti sono tanti e io sto già vacillando.
Diciamo solo che parte da Roma Termini e allora le do ragione: anche io lì ci ho visto cose fantastiche, soprattutto dopo le due di notte.

Episodio 2
Donne sole o male accompagnate

 

Passiamo alla seconda scena con un’idea narrativa tutta nuova: i fidanzatini! E ognuno deve prendere un treno diverso! Il cinema da oggi non sarà più lo stesso.
Lei è sul suo treno e lui non la molla, si mette davanti alla scaletta intralciando il passaggio e uggiolando senza dignità.

Amore ma non c’è bisogno che sali!

Gli dice la ragazza, che cerca di liberarsi di lui. Ma lui è giovane, non capisce i sottotesti.

E io ti aspetto qua, allora!

Ok, sussurra lei, e poi se ne va ansiosa di seminarlo, si fa due vagoni ma lui da fuori la tampina, se mettevano la colonna sonora di un film di Hitchcock rendeva meglio.

Lui pesantissimo, si rivela il più triste dei mimi:

Ci sentiamo più tardi, ti chiamo più tardi!

Certo, come no, la chiamerà coi gettoni dalla cabina telefonica del suo paese. Dai, è il 2020, hanno gli smartphone, si scriveranno il secondo dopo che si sono persi di vista, non si può creare una scena attuale avendo in testa i grammofoni.

Ma il vero tocco di classe è un altro: la vecchia pazzerellona coi capelli blu, che li guarda perché ormai lei ha un piede nella fossa e l’amore l’ha perso Ah ragazza anche io ero come te ma il tempo scorre e la mia vita è finita, ma spiegato in modo proprio sottile, eh, l’unica cosa che non fa è auto-flagellarsi con un frustino, per il resto sono sciami di inquadrature in cui sembra morire di crepacuore da un momento all’altro.

D’un tratto, il ragazzo va in agitazione e chiede all’amata di aspettare: ha visto qualcosa che l’ha interdetto. Così, mentre la sua fidanzata guarda un’anziana vedova con più sincero trasporto di quello che ha usato per salutarlo, lui segue due vecchietti lontanissimi per aiutarli coi bagagli.

Faccio io faccio io!

Senza altro scopo che non sia la marcatura del territorio, interviene il capotreno, dando vita a una avvincente lotta di testosterone:

Lasci, lasci, faccio io, grazie.

E si litigano i trolley, mentre i vecchietti impotenti non fanno in tempo a dire che non era nemmeno il loro bagaglio. Una scena inutile, brutta, che frammenta una storia già sconclusionata, la versione cinematografica di una manciata di sabbia negli occhi, con la differenza che qui non abbiamo l’accecamento momentaneo a darci conforto.

Sistemata la fondamentale questione, il ragazzo torna indietro con la spocchia dello sceriffo e riprende da dove aveva lasciato, mimando i cuoricini con le mani e attaccandosi al vetro come un cucciolo di golden retriever, mentre lei non sa più come diglielo: vai, vai!
Tra un po’ gli sputa.

Se ci concentriamo e riusciamo a dimenticare i discorsi melensi del calibro di: “innamorati che si dicono una parola per ogni chilometro che li dividerà” e “altri che ancora si abbracciano dopo anni passati a tenersi la mano” che farebbero venire il diabete a una roccia calcarea, restiamo impelagati nella tristezza più totale, perché la signora con i capelli blu ha uno sguardo talmente triste che credo sia rimasta vedova ieri. Come può fregarmene qualcosa di due universitari esauriti quando è chiaro che la signora dai capelli blu è in questa condizione di fragilità emotiva? Ho capito l’intensità, Ferzan, ma ora io non dormirò la notte finché non so che ha ricevuto sostegno psicologico.

Ma magari sono io che mi sono costruita la storia della vedova e lei è semplicemente e giustamente affranta di dover aver a che fare con questi due che giocano a la bambina sceglie un cane al negozio di animali mentre lei sperava di godersi il viaggio verso il rave in santa pace, chissà.

Per chi ha avuto la fortuna di sopravvivere alla Parte I, qui c’è la Parte II